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31 ottobre 2018
Il paradosso del jobs-act tra teoria e pratica
Una legge fatta male, e riformata forse peggio, finita oggi in un incaglio paradossale, tra giurisprudenza, prassi giudiziaria e vita economica del Paese: è il jobs-act nell'analisi, acuta, che ne fa il preside della facoltà di Economia dell'Universitas Mercatorum (gruppo Pegaso), nonché giuslavorista di chiara fama, Marco Marazza.
«Dopo la sentenza della Consulta di fine settembre», spiega, «si è avuta la conseguenza paradossale che il regime applicabile a chi è stato assunto dopo il Jobs Act del 2015, è più garantista rispetto a quello precedente».
 
Com'è possibile?
Con la riforma Fornero del 2012 l'articolo 18 aveva continuato a prevedere il reintegro giudiziale più il risarcimento massimo di 12 mensilità per il lavoratore che, considerandosi licenziato ingiustamente, si fosse appellato al giudice. Un'ipotesi alternativa al mero indennizzo massimo di 24 mensilità e piuttosto rara, ma possibile. Nei fatti le parti tendevano ad accordarsi sulla monetizzazione dei licenziamenti per importi spesso inferiori alle 24 mensilità, raramente superiori.
 
Ma poi, col Jobs-act?
Il Jobs-act era andato oltre, nel dare spazio alle imprese, perché aveva eliminato la facoltà di reintegro forzoso e introdotto, per il licenziamento individuale, il criterio dell'indennizzo strettamente proporzionato all'anzianità di servizio del lavoratore, le famose tutele crescenti. Il che rappresentava un rischio economico elevato solo nel caso dei licenziamenti di lavoratori di lunga anzianità aziendale, diversamente il costo era accessibile. Forse anche troppo.
 
Poi è arrivato il decreto dignità...
Si, e per i lavoratori cui si applica il jobs act ha aumentato l'entità del risarcimento da licenziamento, elevando quello minimo da 4 a 6 mensilità e quello massimo da 24 a 36, ma sempre parametrati esclusivamente sull'anzianità di servizio. Quindi, quando Di Maio ha presentato il decreto, tutti noi addetti ai lavori abbiamo subito constatato che gli effetti si sarebbero potuti vedere solo dopo il 2027, cioè per gli assunti dopo il 2015 che per maturare 12 anni di anzianità necessari per superare il vecchio tetto di 24 mensilità dovranno appunto arrivare al 2027. Un lavoratore assunto l'8 marzo 2015 e licenziato, per superare le 24 mensilità di indennizzo e iniziare a traguardare il nuovo limite di 36 mensilità, deve arrivare e superare il 2027.
 
E all'improvviso, la sentenza della Consulta sul jobs act del 2015...
Si, la quale, lasciando invariate le soglie minime e massime a 6 e 36 anni cancella il criterio di anzianità e riaffida al giudice la quantificazione dell'indennizzo, che torna così oggetto di procedimaneto giudiziario, secondo criteri imprecisati. Quindi, tra una situazione ante jobs-act, che prevedeva il reintegro ma limitava il risarcimento ai 24 mesi, e una norma che non prevede il reintegro ma autorizza un risarcimento di 36, faccio fatica a capire cos'è meglio per l'impresa. Fossi un datore di lavoro con 16/20 dipendenti sarei preoccupato.
 
Un esempio concreto, per capire la portata della sentenza?
Poniamo che un datore di lavoro licenzi per mancanze che il giudice ritieni troppo lievi un lavoratore in azienda da 4 anni. Con il jobs-act avrebbe potuto essere costretto a risarcirlo al massimo con 6 mensilità. Oggi invece il giudice può imporne anche 36! Deve motivarlo, ma in mancanza di un criterio avrà certamente una rilevante discrezionalità.
 
E dunque?
Secondo me la sentenza della Consulta e il decreto dignità nella parte sui contratti a termine proiettano il sistema in una nuova dimensione, simile a quella del passato non proprio recente. Dove i contratti a termine hanno regolazione molto rigida, per spingere le imprese a offrire contratti a tempo indeterminato che però tornano ad avere un costo elevato di risoluzione. Condizioni che possono stimolare un ritorno, difensivo, a forme di lavoro nero o sommerso.
 
Altro che "abolizione dell'art. 18": una sentenza della Consulta rende il risarcimento ancora più oneroso per il datore di lavoro rispetto alla normativa precedente.
 
Articolo pubblicato su Economy - Ottobre 2018
di Angelo Curiosi